VIAGGIANDO S’IMPARA – il giro del mondo in 50 consigli
Le pagine seguenti sono tratte dal libro: VIAGGIANDO S’IMPARA – il giro del mondo in 50 consigli di Massimiliano Perrella
In Patagonia, lungo la Ruta 40, la distribuzione del carburante è affidata a pochi benzinai, sufficienti a soddisfare i bisogni dei locali durante il periodo invernale, ma il traffico estivo di turisti comporta l’esaurimento delle riserve nei loro serbatoi con cadenza quasi giornaliera e non è inusuale vedere code infinite sin dalla mattina (o ritrovarsi costretti ad aspettare il giorno successivo) per poter fare rifornimento. Già a La Esperanza (dove ho fatto conoscenza con diversi motociclisti bloccati dall’assenza di benzina) mi sono ritrovato in una situazione simile, ma allora sono stato salvato dal capiente serbatoio della mia Africa Twin che mi ha concesso di proseguire fino a El Calafate, dove il problema si è immancabilmente ripresentato e l’orda di turisti ha creato code di ben cinque ore dinanzi ai vari benzinai. Anche qui me la sono cavata per il rotto della cuffia trovando una piccola stazione di servizio in periferia e, forse complice l’ora di pranzo, in soli venti minuti ho nuovamente fatto il pieno. A El Chaltén mi è bastata una coda di mezz’ora alle sette di mattina, ma oggi mi ritrovo a Bajo Caracoles e preferisco non lasciare neppure un centesimo all’unico (e maleducato) benzinaio di questa sperduta località, confidando nuovamente sull’autonomia offertami dal serbatoio della mia bella e puntando deciso verso Lago Posadas.
Con un minimo di preoccupazione saluto Alan, motociclista statunitense che mi ha raccontato sfighe di ogni genere a costellare il suo viaggio, quasi fosse la trasposizione oltreoceano di Lupo Alberto; ci siamo aiutati a vicenda negli ultimi 230 km e il suo sguardo oramai trasuda rassegnazione, più che motivazione al proseguire. La sua rotta è parallela (ma non coincidente) alla mia, così non mi resta altro da fare se non augurargli: «Buona strada!» La mia direzione è verso il Cile e, prima di arrivare a Cochrane, c’è uno sperduto punto di riferimento indicato dalla malandata cartina che mi porto dietro da mesi. Dai pochi commenti che sono riuscito a racimolare pare sia una zona remota e poco frequentata, ragion per cui deduco sarà meno problematico rifornirmi di carburante.
Da subito la strada si presenta desolata, attraverso una pianura sconfinata: rada e bassa vegetazione e colline arancioni a far da sfondo. Non un’anima viva lungo un percorso di terra battuta, con pietrisco ovunque e fondo pieno di ondulazioni; l’ideale sarebbe galleggiare sopra tutto questo mantenendomi sopra i 60 km/h, ma sopraggiunge un vento fortissimo e a mala pena riesco a mantenermi in equilibrio sulle due ruote. Avverto delle vibrazioni strane al posteriore e mi si gela il sangue al pensiero di aver bucato in questo deserto di vento e desolazione: mi fermo, ma la ruota sembra a posto e attribuisco la sensazione al (pessimo) manto stradale e agli spostamenti d’aria. Nuvoloni grigi si ammassano su di me e inizia a fare freddo, ma per fortuna cadono solo delle timidissime gocce di pioggia. Procedo fra le folate trasversali e devo fare la massima attenzione a non commettere errori: la situazione potrebbe diventare molto poco piacevole in un batter d’occhio. Lungo un sofferto rettilineo avverto nuovamente che qualcosa non va e, nell’ispezionare nuovamente la ruota posteriore, mi accorgo che il traversino (che tiene uniti i telaietti portaborse laterali) ha deciso di rompersi per la terza volta da quando ho salutato l’Italia, stavolta nel posto più inopportuno in assoluto. Risolvo velocemente e approssimativamente con una cinghia e riparto, dato che non posso fermarmi da nessuna parte: non ci sono ripari, non ci sono costruzioni (a parte una diroccata casupola che qualche incosciente ha deciso, qualche decennio addietro, di erigere per cercare fortuna in questo deserto) e posso solo procedere, fra parolacce e sassi.
Riconosco una macchia di colore rosso e mi fermo: è uno degli onnipresenti piccoli santuari dedicati al Gauchito Gil, personaggio leggendario della cultura popolare a cui moltissimi argentini sono devoti. Dinanzi a esso (molte) bottiglie, candele, monete e un paio di letterine; mi fermo e in balia del vento faccio la mia offerta, consistente in una mela, per poi esprimere la gentile richiesta di far diminuire le folate di vento. Per tutta risposta, una volta salito in sella, rimettendo il casco mi rendo conto di aver fatto cadere gli occhiali da vista dalla borsa da serbatoio e di averli calpestati. Non esattamente il tipo di risposta che mi sarei aspettato e meno male che non c’è nessuno che può ascoltare le mie esclamazioni di disappunto! Per fortuna non è un grosso problema, visto che di giorno vedo bene anche senza e la polizia locale non sarebbe in grado di interpretare la sigla dell’obbligo di guida con lenti sulla mia patente; tuttavia da oggi in poi guidare all’imbrunire sarà più faticoso. Procedo così dando fondo alla mia pazienza, in un turbine di vento tale da coprire anche le mie imprecazioni.
Dopo quella che mi sembra un’eternità, un viale protetto da pioppi mi conferma di aver finalmente raggiunto Lago Posadas: si tratta di un microscopico paesino a pianta quadrata con cinque stradine lungo l’asse longitudinale e sei lungo quello trasversale. Non intravedo nessuno e mi fermo dinanzi al pronto soccorso per chiedere di un fabbro. Faccio conoscenza di una gentilissima infermiera, che lavora anche come insegnante, che mi fa la cortesia di chiamare il suo compaesano Christian, professore di educazione fisica e titolare di una ferramenta, il quale mi raggiunge pressoché immediatamente (non credo esistano problemi di traffico da queste parti).
Vengo invitato a seguirlo verso casa sua e fra portico e giardino mettiamo mano al pezzo danneggiato. Dopo una saldatura di rinforzo e una mano di vernice per proteggerlo dalla ruggine, vengo informato che oggi la pompa di benzina è a secco e dovrò necessariamente aspettare l’indomani per ripartire; così Christian, dopo avermi offerto un prezioso servigio, mi fa anche la gentilezza di ospitarmi a casa sua. Dopo avermi accompagnato a lato della scuola dove insegna, per connettermi alla rete internet e inviare un messaggio alla mia famiglia, riesco a convincerlo a farmi comprare del gelato per ringraziarlo, così nel raggiungere il minimarket ho modo di visitare praticamente tutto il paesino. La proprietaria della piccola bottega si fa arrivare delle provviste una volta alla settimana e, dopo avermi chiesto come sono arrivato e che lavoro facevo in Italia, mi suggerisce di offrire i miei servigi all’unico hotel presente; incredibilmente questo posto è frequentato, oltre dalla popolazione di appena duecentosettanta abitanti, addirittura da qualche turista e da qualche pescatore che si reca in questa landa sperduta per raggiungere il lago Posadas, specchio d’acqua omonimo che ha fatto anche cambiare il nome al paesino (al secolo Hipólito Yrigoyen). Sebbene i paesaggi del circondario siano davvero di una bellezza innegabile, il solo pensiero di vivere in un centro abitato microscopico come questo mi fa strabuzzare gli occhi e venire i brividi. Com’era la frase? «Ringrazio dell’offerta, rifiuto e vado avanti!» La sera stessa è presente anche la compagna di Christian, assieme a sua la sorella e al marito. Si vede che di ospiti non ne ricevono spesso da queste parti: vengo trattato con ogni attenzione possibile e la succulenta cena che mi viene offerta è molto ben apprezzata dal mio affaticato corpo.
L’indomani devo aspettare che la benzina arrivi proprio da Bajo Caracoles, unico snodo da e verso la Ruta 40, così riesco a rifornire il serbatoio solo a metà mattinata. Il vento è ancora sostenuto e nonostante l’invito di Christian a restare un’altra notte decido comunque di proseguire verso il Cile. Il suo suggerimento è di non percorrere la strada più battuta per arrivare alla frontiera, bensì una decisamente meno conosciuta (ma a suo dire estremamente più scenografica) che parte direttamente dal lago. Così accetto il consiglio e mi armo di coraggio, visto che il menù di oggi è simile a quello di ieri, sia in termini di condizioni stradali che di vento, ma quando raggiungo il lago Posadas le mie pupille non possono che dilatarsi a dismisura per ammirare il meraviglioso scenario che mi si palesa davanti.
In realtà, avvicinandomi intravedo due laghi con un piccolo istmo di terra che li separa: il secondo specchio d’acqua ha il nome di Pueyrredón e sconfina in territorio cileno. È un vero e proprio spettacolo esaltato dal bel sole odierno e il vento arrembante crea delle onde sulla battigia quasi a darmi la sensazione di essere dinanzi a un piccolo e incantevole mare. Intorno a me assolutamente nessuno e per mezz’ora sono l’unico fortunato fruitore di questo incredibile panorama di natura pura e selvaggia. Peccato l’aumentare del vento e delle nuvole: capisco che è giunta l’ora di proseguire e mi dirigo verso la strada indicatami da Christian. La riconosco subito: «Non puoi sbagliare» mi aveva detto «è un cammino che solo un fuoristrada o una moto da enduro come la tua potrebbero percorrere.» In piedi sulle pedane mi inerpico lungo una erta e scoscesa salita, ma la mia bella sa il fatto suo e fa il suo dovere senza batter ciglio, incurante del peso dei bagagli. Continuo a salire fino a un punto panoramico dove posso ammirare per l’ultima volta questa meraviglia naturalistica, che ho avuto la fortuna di conoscere grazie a un traversino in metallo che ha scelto di rompersi nel momento apparentemente meno opportuno del viaggio. Ancora una volta un imprevisto si è trasformato in un’occasione di scoperta e in un ricordo magnifico.
Procedo, lungo quello che è ora diventato un percorso da enduro, con un pizzico di timore reverenziale: qualora avessi un minimo problema qui sarei veramente da solo nel senso più assoluto del termine! Solo dopo altre due ore di sterrati e strade bianche raggiungo finalmente la frontiera. Dopo una rapida visita al gabbiotto argentino raggiungo la piccola caserma dei Carabineros de Chile: il sole si è oramai quasi completamente nascosto dietro le montagne che circondano questo fazzoletto di terra e, dopo aver chiesto gentilmente di poter trascorrere la notte in loco, mi viene offerto un tè caldo e un letto in piccolo fabbricato dismesso, privo di ogni comfort ma dotato di un morbido materasso. Il copriletto è sporchissimo, ma riesco in qualche modo a coprirlo con un telo e piazzo il mio sacco a pelo nell’unico angolo meno macchiato; ceno con le mie scatolette e invio un messaggio alla mia famiglia tramite il geolocalizzatore, visto che di connessione internet non se ne parla neppure. Non posso che ringraziare per questo degno epilogo e cercare di riposare dopo i numerosi stimoli odierni. Domani sarà la volta di allacciarmi alla Carretera Austral che promette meraviglie degne di un altro pianeta e, considerato quel che ho visto sin qui, a fatica riesco a prender sonno tanta è l’eccitazione!
È un sole nuovo quello che mi scalda in vista della tanto attesa Carretera Austral: sono eccitatissimo di lanciarmi verso questa strada e neppure un insidiosissimo tratto sabbioso, immediatamente lasciata la caserma dei Carabineros de Chile dove ho trascorso la notte, riesce a stemperare il mio entusiasmo. Attraverso il Passo Roballo su di una bellissima strada sterrata in mezzo a basse montagne e colline verdi, con gruppi di alpaca che pascolano indisturbati. Raggiungo Cochrane e nella piazza del paesino posso usufruire di un’ora gratuita di internet, messa a disposizione di tutti i cittadini dal Governo Cileno. La velocità della connessione è pessima, ma visto dove mi trovo posso solo ringraziare! Scrivo ai miei cari, provo a controllare senza successo il meteo e mi faccio un’idea più precisa di cosa ho intorno a me, studiando la mappa. Compro qualcosina in un negozietto e, dopo un pranzo frugale e veloce, mi rilasso mezz’ora prima di rimettermi in marcia.
Il vento è meno severo da questo lato delle Ande e lo apprezzo immensamente, dopo mesi di supplizio costante. Già solo per quel che ho visto negli ultimi pochi chilometri intuisco che questa strada mi piacerà e parecchio! Proseguo la marcia verso sud in direzione di Villa O’Higgins e il piano è di raggiungerla in due giorni; si tratta di un percorso senza uscita, quindi sarò obbligato a ripercorrere questo tratto due volte prima di dirigermi verso Puerto Montt, estremo opposto che fa capo a questa strada. La temperatura delle ore immediatamente dopo il pranzo è stranamente elevata e inizio a boccheggiare dentro l’abbigliamento invernale che mi ha tenuto caldo sinora. Percorro circa una trentina di chilometri in direzione sud constatando un netto peggioramento delle condizioni stradali: da duro e compatto, il fondo diventa mosso e profondo, con ondulazioni e tratti di ghiaia un po’ dappertutto. Non sono sicuro di voler affrontare 234 km in queste condizioni: gli sterrati mi piacciono, ma impegnarmi a tener il gas aperto per far galleggiare l’avantreno, avendo l’imperativo di non commettere alcun errore in questa remota zona di mondo, è una pratica di cui farei volentieri a meno in questo momento. La strada si preannuncia bellissima sino a destinazione, con una pausa nella suggestiva Caleta Tortel, tuttavia interrogate un paio di persone a bordo dei loro fuoristrada arriva la conferma che la quantità di ghiaia e di pietre sul percorso aumenteranno ancora, così prendo la decisione di tornare verso Cochrane e da lì proseguire verso nord. Mi accontenterò dei rimanenti 1000 km fino a Puerto Montt per apprezzare le bellezze del circondario.
Supero il piccolo centro cittadino già conosciuto e proseguo attraverso paesaggi magnifici, con fiumi, laghi, montagne in lontananza con le cime innevate e nessuna manifestazione tecnologica dell’uomo, a parte pochi segnali stradali. Qualche folata di vento prova ancora a disturbarmi, ma posso apprezzare che la sua foga è lontana anni luce rispetto a ciò di cui ho fatto esperienza sino a qui. Non ho nessuna fretta e mi godo tranquillamente ogni curva innanzi a me, con la dedizione alla guida insidiata a più riprese dai panorami circostanti, sebbene debba mantenermi vigile a causa dei burroni ai lati della carreggiata. Il turismo sta aumentando tantissimo da queste parti ed è davvero difficile trovare uno spazio dove piantare la tenda: fino a tardo pomeriggio non ho intravisto nessun luogo adatto, così provo a chiedere a qualche contadino di accettare un viandante e una moto nel proprio giardino. Sono fortunato perché alla prima porta a cui busso appare una vecchietta dal viso tenero e dal fare dolcissimo: mi fa entrare in casa, mi offre del tè, del pane con la marmellata e mi fa raccontare alcune delle esperienze che mi hanno condotto sino a qui, mentre figlie e nipoti guardano la televisione sul vicino divano. Dopo la merenda ristoratrice mi offre di riposare nel galpón in giardino, ma non capisco esattamente a cosa si riferisca, sin quando non mi accompagna verso la piccola capanna degli attrezzi, in legno e tetto di lamiera.
A terra ho abbastanza spazio per il materassino e c’è una piccola stufa, realizzata con un pezzo di lamiera cilindrico con una cappa, che fanno esattamente al caso mio. Peccato per le orde di tagliaforbici praticamente su ogni superficie, in quantità tali da farmi capire che stendermi a terra mi assicurerebbe di ritrovarmene ricoperto; l’unica opzione è quella di accomodarmi sull’unica sedia di legno, non prima di averla bonificata con lo spray antizanzare che sembra faccia effetto anche contro di loro. Un cucciolo di cane peloso e vispo mi tiene compagnia mentre preparo il fuoco e consumo la mia cena, durante gli ultimi minuti di luce. Immediatamente dopo il tramonto la temperatura scende notevolmente e il fuoco è l’unico alleato valido contro il freddo, considerando che il solo completo da moto sarebbe stato totalmente insufficiente. Cerco di appisolarmi quando inizia a cadere acqua dal cielo, ma fortunatamente il tetto non ha falle e resto asciutto. Dormire seduto è molto meno comodo di quanto immaginassi, inoltre circa ogni ora vengo svegliato dal freddo e devo rimpinguare il focolare con alcuni dei (per fortuna abbondanti) tronchetti di legno accatastati in un angolo. Ciclicamente cambio fra le sole quattro posizioni possibili, accasciandomi sui braccioli, sullo schienale o appoggiandomi alla borsa che ho sulle gambe, ricavandone momentanee pause di sonno profondo, sempre scandite dall’alimentazione del fuoco. Sono seduto sul trono della baracca degli attrezzi della Fundo Vale Seco, il mio destriero riposa beatamente sotto a un telo a pochi metri da me e, sebbene le mie membra lamentino scomodità e freddo, mi sento il sovrano della Carretera Austral! Le prime luci del mattino sentenziano la fine di questa scomodissima esperienza: ho superato indenne un temporale fragoroso e la calda colazione, nella ancor più calda e accogliente cucina della casa antistante, decreta superata questa prova e sono pronto a riprendere il cammino in vista delle successive.
Oggi la strada si rivela un tripudio di paesaggi meravigliosi: laghi e lagune dai colori spaziali, poche nuvole, cime in lontananza praticamente dappertutto e pochissimo traffico, ho un sorriso panoramico stampato in faccia e non potrei chiedere di meglio! Raggiungo Puerto Rio Tranquilo, famoso per la Catedral de Mármol lungo il lago General Carrera: qui il numero dei visitatori è nettamente superiore rispetto alle più tranquille località attraversate sinora e il vociare generale intorno a me non è una melodia gradita alle mie orecchie. Una coppia di svizzeri italiani, Claudio e Anna, mi invita a pranzare con loro e accetto volentieri di fare due chiacchiere ‘tricolori’ dopo tanto tempo; viaggiano con un pick-up che hanno spedito direttamente in Cile e stiamo facendo la stessa strada. Provo a connettermi alla rete Wi-Fi del caffè dove siamo seduti, ma non c’è campo. Su consiglio di due viaggiatori zaino in spalla conosciuti a Ushuaia, non effettuerò l’escursione al lago: sebbene in foto le conformazioni rocciose qui vicine sembrino meravigliose, dal vivo pare rendano molto meno, così decido di proseguire oltre. A proposito di viaggiatori zaino in spalla: è pieno ovunque e ne vedo a frotte, disposti in fila agli estremi del centro abitato ad aspettare qualcuno che conceda loro un passaggio.
La pioggia si fa intermittente e mi fa compagnia per moltissimi chilometri, concedendomi solo delle sporadiche pause, mentre nel pomeriggio sono costretto a una sosta forzata di ben due ore a causa dei lavori stradali: un giorno questa strada sarà completamente asfaltata e perderà gran parte del suo fascino, ma sino ad allora serviranno ancora tante cariche da far brillare sulle bellissime rocce circostanti per modellare adeguatamente il percorso. Durante questa lunga e noiosa attesa incontro nuovamente Claudio e Anna, incolonnati poco davanti a me. Il mezzo con il quale si muovono è un pick-up BT-50 equipaggiato con una cellula abitativa di ultima generazione, dotata di molti comfort a dispetto delle dimensioni alquanto ridotte. Addirittura permette di esser scaricata in qualsiasi luogo, offrendo il lusso di scorrazzare con il mezzo ben più leggero in attesa di tornare alla base; una sorta di tartaruga con guscio rimovibile. Claudio racconta di viaggi epici e lascia intendere di esser un viaggiatore navigato, ma mentre mi parla ragiono sul fatto che con i 18’000 € (del costo della sola cellula) credo sarei in grado di viaggiare per quasi tre anni…
Finalmente ci viene dato il via libera e sotto un cielo grigio procediamo verso Cerro Castillo. Peccato che aumenti considerevolmente il traffico pesante e i rigagnoli d’acqua, che si formano intorno ai cantieri, rendono la marcia molto meno piacevole rispetto a prima. Tutti incolonnati, arriviamo a destinazione dove ricompare anche l’asfalto e questo ritorno alla civiltà mi lascia un pizzico di amaro in bocca: considerate le meraviglie naturali che ci circondano sembra quasi di incorniciare un quadro d’autore con delle lucine di Natale intermittenti. Cerro Castillo non è null’altro che un agglomerato di casette basse e senza nessun gusto per l’estetica, così propongo alla coppia elvetica di trovarci uno spiazzetto per passare la notte e fare la spesa per cucinare qualcosa all’italiana, tuttavia per tutta risposta Claudio replica: «Mah, sai quest’oggi a pranzo ho mangiato solo un piatto di spaghetti al sugo di pomodoro, ora ho un po’ fame e preferirei andare in un ristorantino. Inoltre sono due sere che dormiamo in macchina, preferirei un letto un po’ più comodo di quello che abbiamo.» Mi viene il dubbio se chi mi sta parlando ora sia la stessa persona che poche ore fa millantava viaggi in fuoristrada per il mondo con un mezzo preparato per la guerra. Che senso ha viaggiare con un veicolo che garantisce totale indipendenza e poi non sfruttarlo neppure? Non mi piace giudicare e rispetto la libertà altrui, pertanto saluto il duo d’oltralpe e vado alla ricerca di un posto in autonomia: dopo che un contadino locale mi chiede dei soldi solo per piazzare la tenda nel suo giardino, decido di allontanarmi ulteriormente dalla civiltà, sebbene la strada inizi a salire di quota e l’aria si stia raffreddando esponenzialmente rispetto al calare del sole. Trovo un piccolo sentiero che mi accompagna sino a sotto una delle due montagnole che cingono la strada e velocemente monto la tenda, presagendo già una notte all’insegna del freddo.
Mangio e mi vesto di tutto punto, poi la stanchezza mi fa addormentare beato e confido in un sonno profondo. Peccato che anche stavolta il riposo sarà intermittente a causa di continui pizzichi di freddo un po’ dappertutto: faccio lo sforzo di aprire il sacco a pelo e indosso tutto quello che posso infilare, attivo lo scaldino chimico versando qualche goccia d’acqua al suo interno e me lo metto sul ventre, mentre mi rannicchio in posizione fetale e mi auguro che i raggi del sole vengano a lambire le pareti della tenda il più presto possibile. Passo altre due ore nell’oscurità e in un tremolio lievemente accennato. Mentalmente so che se la temperatura dovesse calare anche di solo un altro grado avvertirei veramente il freddo e sarebbe un bel problema, quando finalmente inizio a intravedere un pizzico di barlume attraverso gli strati della tenda e so che devo tenere duro ancora per poco. Non so a che quota sono o quanti gradi centigradi io abbia ‘assaggiato’, ma stavolta sono stato davvero fortunato.
Mi godo fantasticamente il sole sino a Coyhaique, dove finalmente posso ricaricare un po’ le batterie a casa di un amico di Sabino, conosciuto a Commodoro Rivadavia, anche lui con una Africa Twin. Riposo tre notti a casa sua e grazie alla sua guida vado alla scoperta anche di lagune e laghi incastonati in paesaggi incredibili, una vera gioia per gli occhi! Ho le gomme quasi a pezzi dopo soli 7’000 km e spero di riuscire a farcela sino a Buenos Aires. Dopo la gradita permanenza, punto ancora verso nord e la strada si riconferma non asfaltata, aumentando il piacere di viaggiare in zone ancora dominate dalla natura. A metà cammino intraprendo una piccola escursione verso il Sendero del Bosque Encantado, dopo essermi cambiato e aver coperto la moto in vista della copiosa pioggia in arrivo. Dopo un’ora raggiungo la straordinaria Laguna Gnomos che, fra acqua verde, montagne grigie e cielo bianco valeva tutta la pena di farmi bagnare, sudare e faticare per poi scarpinare un’altra ora prima di tornare alla strada e percorrere altri 100 km per raggiungere La Junta. Nuovamente mi vogliono far pagare per montare la tenda in un campo (mi venisse offerta almeno una connessione internet o una doccia potrei accettarlo, ma mettermi unicamente a disposizione un brullo fazzoletto di terra mi sembra un po’ eccessivo). Trovo una piccola piazzola per dormire a bordo di un bellissimo lago, ma nell’avvicinarmi a una tettoia resto intrappolato nel fango e ne vengo fuori solo grazie a due ciclisti che si sporcano volentieri le mani per me, spingendo la moto e consentendomi di far uscire la ruota posteriore dalla melma. Impagabili! Stanotte non fa freddo, ma avverto tantissima umidità ed è impressionante la differenza di temperatura rispetto a sole poche centinaia di chilometri più a sud: opto quindi per dormire sul tavolo di legno sotto alla tettoia in plastica piuttosto che montare la tenda e inzupparla d’acqua, avendo poi la necessità di fermarmi ancora per farla asciugare.
Verso Chaitén la vista degli alberi morti dopo l’eruzione del 2008 è assolutamente spettrale: sembra di essere in un videogioco o in un film postatomico, tuttavia l’atmosfera surreale e il silenzio tutt’attorno rendono lo scenario morbosamente affascinante. Vengo invitato a pranzo da un provetto cuoco, rimasto a piedi dopo la rottura della catena della sua Ténéré 660 e da giorni in attesa dell’arrivo del ricambio. Proseguo in direzione di Caleta Gonzalo e viaggio costantemente con la bocca aperta per le meraviglie paesaggistiche attorno a me. Condivido gli ultimi chilometri del percorso assieme a Rafael, un simpatico ragazzo a bordo di una CB 500, il quale mi parla incessantemente di viaggi e della storia del Parco Nazionale Hornopirén: è stato donato al Cile assieme ad altri parchi da Kristine e Douglas Tompkins, due imprenditori statunitensi, in quella che è stata la più grande donazione di terra di un privato a un governo, con la clausola di rispettare e difendere la biodiversità e la fauna selvatica locale, un patrimonio inestimabile per l’intera umanità. Nonostante la pioggia insistente durante gran parte della giornata, non manchiamo di apprezzare ogni scorcio raggiunto dai nostri occhi e ci lanciamo in qualche piccola escursione a piedi fra rocce, fango, ponticelli sospesi e vegetazione rigogliosa. A sera siamo stremati, ma ne abbiamo ancora per festeggiare in maniera (fin troppo) alcolica con dei viaggiatori, radunatisi sotto una tettoia, quella che è la fase finale del cammino lungo la Carretera Austral. Altra notte in tenda, stavolta quasi calda per via dell’assurdo tasso d’umidità dovuto a lago, fiume e rigagnoli d’acqua un po’ dappertutto intorno a me.
L’indomani mattina, avvolto da nebbia e aria pungente, alle 8:00 salgo su di un traghetto per Fiordo Largo dove percorro 10 km di sterrato verso Leptepú e qui di nuovo in barca verso Hornopirén. L’umidità della mattina e il caldo sole che si riaffaccia dopo gli ultimi due giorni di intensa pioggia regalano uno scenario favoloso e la vista in mezzo al fiordo è indescrivibile. Via verso Puelche, altro traghetto per La Arena e poi l’arrivo a Puerto Montt. Sono nuovamente nella civiltà e sembra impossibile esser contornato da semafori e palazzi dopo il salto nella natura vissuto sino a poco fa. Apprezzo infinitamente le comodità di una casa, una lavatrice e una doccia calda ma se posso farlo è solo perché la privazione da essi mi ha reso cosciente del loro valore, sebbene non li ritenga assolutamente indispensabili: ben vengano meraviglie naturalistiche distanti anni luce dalla mia zona di comfort! Quel che ho visto/vissuto negli ultimi giorni vale infinitamente il mangiare cibo in scatola e qualche notte in tenda a battere i denti.
Viaggiando s’impara – Il giro del mondo in 50 consigli vuole essere una raccolta di suggerimenti per un lettore che sta per approcciarsi al suo prossimo viaggio, sia a corto che lungo o lunghissimo termine. All’interno del libro vengono condivisi consigli preziosi, maturati grazie alle numerosissime esperienze vissute dall’autore durante i sei anni in sella alla propria motocicletta, fronteggiando difficoltà fra le più disparate. Temi ‘elevati’, relativi a: condivisione, apertura verso il mondo, attitudine personale e maturazione di uno stato di coscienza superiore vanno a mischiarsi con tematiche più pragmatiche. Problem solving, attraversamento di frontiere, lavoro all’estero, organizzazione del bagaglio, vestiario e molto altro completano la lunghissima lista di suggerimenti a disposizione del lettore, ognuno di essi condito da almeno un aneddoto di viaggio, narrato in presente indicativo così da far immedesimare ancor di più il fruitore nella lettura e consentirgli di scoprire il prosieguo del viaggio dell’autore, là dove la narrazione si era interrotta con il primo libro. Nondimeno, ogni singolo consiglio può essere applicato anche alla vita quotidiana: sarà la una visione personale del lettore a decidere come meglio interpretare gli insegnamenti elencati, offerti sempre con tono umile e con il fine ultimo di spronare a uscire dalla monotonia, a vedere la realtà (e il mondo) con occhi diversi, ma soprattutto a lottare per i propri sogni!
Massimiliano Perrella racconta i passi di un impervio cammino con meta l’Australia, attraverso culture, prove da superare e decine di persone che costellano il suo percorso; lo fa grazie a questo autentico diario di viaggio, in cui racconta la sua decisione di allontanarsi dai canoni di una società che non accetta. Il suo non è solo un viaggio su due ruote, ma la ricerca della propria identità!
Nel corso dei chilometri Massimiliano fronteggia avversità impreviste, scontrandosi spesso con burocrazia e inettitudine, ma sente che qualcosa in lui sta cambiando: il viaggio gli sta regalando occhi nuovi con cui mettere in discussione la sua esistenza, i suoi ideali e le sue convinzioni.
Si scatena un vero e proprio viaggio interiore, condito da amori nuovi e passati, in perenne lotta con il senso di responsabilità che lo fa sentire lontano dagli affetti, ma che non gli impedisce di fondersi con il mondo intero e di scoprire la rivelazione più grande: il significato della vita.
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